“Difficile essere fotografati dopo Ghergo, difficile vedere un’altra Alida Valli, o Sylva Koscina o Sophia Loren. Ghergo nel suo studio severo le trasfigura nella luce che definisce i piani dei volti (…). Ghergo definisce con essa (la luce, ndr) un vero e proprio processo di beatificazione, in un ideale paradisiaco”.
Queste sono le parole con cui Vittorio Sgarbi definisce il talento e l’opera di colui che negli anni ‘30 fu senza ombra di dubbio il fulcro attorno al quale venne ridefinito il significato di fotogenia e che guidò forse a sua insaputa una vera e propria rivoluzione della cultura visiva nazionale. Il suo nome è Arturo Ghergo ed è da considerare l’iniziatore e il principale esponente della via italiana alla glamour photography e di quella sua aura, indefinibile, che avvolge persone, cose e situazioni e li trasforma in oggetti del desiderio.
Sono gli anni tra il ‘20 e il ‘30 e il giovane Ghergo arriva a Roma dalla profonda e arretrata provincia italiana. Di origine marchigiana, a Montefano inizia giovanissimo a praticare la fotografia nello studio del fratello; in quell’ambiente affina la tecnica di ripresa e stampa, e soprattutto di ritocco fotografico, che avrebbe poi rappresentato – applicata a un gusto più aggiornato e alle specifiche funzioni sociali della ritrattistica celebrativa – la sua maggiore fortuna
In quegli anni la cultura fotografica italiana è in fase di profonda trasformazione; non tanto dal punto di vista estetico-artistico quanto da quello più incisivo della sua funzione comunicativa, assunto molto rapidamente anche per volere del giovane regime fascista, che aveva deciso che cinematografia e fotografia sarebbero stati due eccezionali mezzi per coltivare consenso nell’ancora poco alfabetizzata Italia. Ghergo ottiene i primi importanti risultati agli inizi degli anni Trenta, nel campo del ritratto su commissione e della loro successiva e regolare pubblicazione con tanto di nome in didascalia.
Leda Gloria, Alida Valli e le altre dive del momento sono i soggetti che Ghergo trasfigura sotto i suoi sapienti giochi di luce prima e di ritocco poi; ma è soprattutto al servizio dell’alta borghesia e della nobiltà romana dell’epoca che il fotografo inizia a perfezionare e poi a imporre il proprio modello iconografico, destinato a diventare uno status symbol: un’impronta di tradizione tardo-pittorica, aggiornata secondo i moderni canoni proposti sulle riviste straniere della nascente industria della moda (Vogue, Harper’s Bazaar e Vanity Fair). L’immagine del soggetto che esce dai suoi ritratti assume i contorni di una vera e propria mitologia, costruito su un ideale di bellezza algido e sofisticato, sul quale il “comune mortale” non può far altro che sognare.
Per le immagini © Archivio Ghergo