Si fa presto a dire Pink Floyd. Tutti a parole li amano. Una volta in un mercatino ho conosciuto un tizio che a suo dire adorava i Pink Floyd e i Pooh (!!!). Forse non aveva le idee molto chiare, ciò non toglie che nominando i Floyd gli occhi gli si illuminassero per l’ammirazione. Diceva che erano dei “tecnici del suono…” (SIC).
Poveri, poveri – ricchissimi ma poveri – Pink Floyd. Ormai identificati fin dagli anni ’70 con gli effettacci da “senti che figata questo effetto con le mie casse nuove!” e “qua si sente un elicottero che con le cuffie sembra vero!”, eccetera, dimenticando troppo spesso che in realtà si aveva a che fare con eccellenti musicisti, che nella preistoria del rock avevano inventato la psichedelia insieme a un altro manipolo di geni insani tipo i Soft Machine o i Grateful Dead d’oltreoceano.
Bene, i Pink Floyd non sono stati solo elicotteri, sveglie, cani e altre bestie varie per lo stupore di ingenui e imbambolati acquirenti, ma anche autori di musiche e atmosfere in diretta relazione con il nostro essere più profondo. Se Dark side, Whish you were here, Animals e tarde opere ben peggiori hanno permesso loro di divenire addirittura più popolari dei Beatles a livello mondiale, i quali a loro volta erano più popolari di Gesù Cristo in un crescendo di popolarità cosmica a livelli fantametafisici, esistono però opere che ne hanno segnato la grandezza da un punto più modestamente e umanamente artistico. Non ho problemi a farne i nomi: The piper at the gates of dawn col folletto extraterrestre Syd Barrett; A Saucerful of secrets che ne portava ancora il testimone; More; e Ummagumma, il vero capolavoro dei nostri e uno dei pochi album che si possano realmente definire seminali e fondativi.
Ma la mia scelta, per motivi di pura vendetta, ricade sul brutto anatroccolo dei summenzionati dischi: cioè More. Perché vendetta? Perché è il tipico disco che il pinkfloydiano fasullo non conosce e snobba per via del suo esistere in quanto immesso sul mercato con la scusa dell’appartenenza alla genìa delle soundtracks. Un disco, a detta di molti, del tutto prescindibile.
E INVECE NO! More è una delle opere più belle di tutta la storia del gruppo di Waters e se non lo si conosce o non lo si apprezza, è meglio lasciar perdere la musica e dedicarsi ad altri hobby tipo la micologia, la pesca d’altura o i Queen. Il film di Schroeder del quale è commento sonoro, per fortuna poco puntuale e ancor meno descrittivo, è cosa di relativissimo interesse. Una storia di droga e morte nella Ibiza degli hippies. Il disco invece è bellissimo e può fare a meno delle immagini. Si apre con Cirrus minor, che rimanda a serene atmosfere tipo Grantchester meadows e continua con la grandiosa The Nile song… per poi continuare senza sensibili cali qualitativi.
Procuratevelo e ascoltatelo. E ricordate, quando incontrate qualcuno che dice di adorare i Pink Floyd chiedetegli se conosce More. Se la risposta sarà negativa, portatelo sulla retta via.